martedì 26 gennaio 2010

Italia anno 2010: le coppie di fatto nell' anno 0 della tolleranza

Matthew Wayne Shepard (1976 - 1998)
 Un po di tempo fa' dedicai un post "Lo specchio della vita delle donne nei Kilim", a Rachel Corrie (10 aprile 1979 – Rafah, 16 marzo 2003) un ragazza attivista statunitense pacifista. Ora mi sento di parlare di un ragazzo americano Matthew Wayne Shepard (1º dicembre 1976 - 12 ottobre 1998), studente all' Università del Wyoming.
Matthew Wayne Shepard (1976 - 1998)
Matthew Wayne Shepard venne derubato e torturato da due ragazzi in una località vicino a Laramie, Wyoming la notte tra il 6 ottobre e il 7 ottobre 1998, a causa del suo orientamento sessuale. Shepard fu trovato dopo 18 ore di agonia, con una frattura dalla nuca fino oltre l'orecchio destro. Parte del cervello era stata danneggiata in modo tale da risultare compromessa la capacità del suo corpo di regolare il battito cardiaco, la temperatura corporea e altre funzioni vitali. C'era inoltre circa una dozzina di piccole ferite sulla testa, sul collo e sulla faccia.  Morì cinque giorni dopo a causa delle ferite subite.
Matthew Wayne Shepard (1976 - 1998)
I suoi assassini stanno attualmente scontando la pena in prigione. Gli avvocati hanno dimostrato che Shepard venne attaccato esclusivamente a causa del proprio orientamento sessuale. Il suo caso, grazie anche alla famiglia che ha scelto di non mettere a tacere l'episodio ma di parlarne in pubblico, è diventato un simbolo contro la discriminazione in tutto il mondo.

Matthew Wayne Shepard (1976 - 1998)
Il processo vide l'inquietante introduzione nel diritto della "difesa da panico gay"; inoltre un gruppo di oppositori omofobi, capeggiati dal pastore della Chiesa Battista Fred Phelps, di distinse per la propria follia protestando con picchetti ai funerali di Shepard e al processo dei suoi assalitori. La violenta protesta si concretizzò con cartelli e slogan come «Matt Shepard marcisce all'inferno», «L'Aids uccide i finocchi morti» e «Dio odia i froci».

« È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell'intima bontà dell'uomo. » (Diario di Anna Frank)

In Italia anno 2010, Regno della Chiesa e dei talk show in cui invitano l'onorevole Mussolini a parlare dei diritti delle coppie di fatto, i diritti sono conservati e cristalizzati secondo una tradizione secolare, la stessa che ha ucciso i diritti di Giovanna d'Arco, Giordano Bruno, Galileo Galilei, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e di migliaia di altre persone, le cui sofferenze rimangono inascoltate. Per sempre ricorderò la definizione di vita di Piergiorgio Welby:

"Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà";
La vita del 22 enne Matt Shepard vittima dell'intollerenza, continua nella Fondazione  fondata dai genitori di Matthew, Judy e Dennis, attivi sostenitori dei diritti gay ed educatori alla tolleranza.

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venerdì 16 gennaio 2009

Lo specchio della vita delle donne nei Kilim

Le tesi qui riportate trovano il proprio riferimento scientifico in J.Mellaart, U. Hirsch, B. Balpinar, The Goddess from Anatolia, Eskenazi, Milano 1989
L’immagine di Penelope che tesse e disfa la propria tela è forse uno degli iconemi più volgarmente impressi nell' immaginario collettivo che rimanda ad una indomita capacità secolare della donna di superare congiunture difficili attraverso l’espediente della pazienza e di una sapiente furbizia.
Amazzone ferita (particolare) nei Musei Capitolini di Roma, l'amazzone era una« guerriera ardita, che succinta, e ristretta in fregio d'oro l'adusta mamma, ardente e furïosa tra mille e mille, ancor che donna e vergine, di qual sia cavalier non teme intoppo. » (Publio Virgilio Marone, Eneide, libro I.810-814 [orig. lat.: 491-493]. La tela di Penelope invece fu un celebre stratagemma, narrato nell'Odissea, creato da Penelope, la quale per non addivenire a nuove nozze, stante la prolungata assenza da Itaca del marito Ulisse, aveva subordinato la scelta del pretendente all’ultimazione di quello che avrebbe dovuto essere il lenzuolo funebre del suocero Laerte. Per impedire che ciò accadesse la notte disfaceva ciò che tesseva durante il giorno. Oggigiorno si cita la tela di Penelope per riferirsi ad un lavoro che non avrà mai termine.http://it.wikipedia.org/wiki/Tela_di_Penelope
Kilim è una parola turca che indica un tappeto a tessitura liscia caratterizzato da motivi decorativi strettamente legati alla cultura che li ha prodotti. Le aree geografiche per tradizione produttrici di kilim sono l’Africa Settentrionale, l’Anatolia, la Persia, il Caucaso, l’Afghanistan e l’Asia Centrale. In queste zone le tribù nomadi, perennemente in cammino per condurre al pascolo le capre e le pecore, e le popolazioni stanziali del deserto hanno dato vita a stoffe variopinte che permettessero loro di proteggersi dal caldo e dal freddo e di ripararsi dalle intemperie. Il kilim è così diventato elemento essenziale di tali popolazioni, fino a scandirne i momenti più importanti della vita, come ad esempio il matrimonio. Ancora oggi, in molte di queste zone, si producono tappeti di grande qualità e bellezza, spesso destinati al mercato occidentale.
Le filatrici e le tessitrici soprattutto orientali, già nell’antichità “prigioniere” di un lavoro che desta meraviglia per l’infinito sacrificio che richiede, essendo una attività silente poco o per niente riconosciuta e remunerata, hanno dove è stato possibile lasciato una trama di linguaggi nei Kilim, che vanno letti come dei libri per comprendere ciò che racconta la sua tessitrice. Ad esempio aggiungendo un piccolo motivo di mano sul Kilim una donna firmava la sua opera e simboleggiava se stessa oppure la giovane donna che tesseva disegni di orecchini sui suoi Kilim indicava ai genitori il desiderio di sposarsi. Il Kilim infatti nella sua interpretazione culturale più aulica ed estesa riflette la vita di colei che l’ha tessuto e la cultura del gruppo cui apparteneva; vi compaiono motivi ricorrenti legati al mondo femminile: ornamenti come gli orecchini, il pettine, il cofanetto e molti altri fino al simbolo della maternità e della fertilità della donna con il motivo “Elibelinde” (Le mani sui fianchi). Per comprendere questa simbologia occorre riferirsi agli inizi della storia dell’uomo: in tempi antichi l’uomo, in lotta per la sopravvivenza, minacciato dalla carestia e in balia degli eventi naturali, credeva che in questo universo tutto fosse vivente, considerava la terra come una madre e come la creatrice di vita.
Elibelinde ( Le mani sui fianchi ) Sicuramente il motivo più conosciuto, esso è considerato l'archetipo dei simboli raffigurati sui vecchi kilim. Viene chiamato 'mani sui fianchi', 'dea madre', 'madre terra', e così via; qualcuno vede in esso un simbolo di maternità e fertilità, altri un qualcosa di magico se non addirittura di mistico. I Kilim, opere di inestimabile valore sia come opere d’arte che come testimonianze culturali, si configurano pertanto anche come lo specchio della vita delle donne che li tessevano e dell’educazione a cui erano sottoposte al fine di prepararle ai segreti dell’adolescenza, del matrimonio, del parto e della morte; nel tramandarsi le geometrie, le tecniche, i motivi, i colori, il gruppo si garantiva la trasmissione di un antico bagaglio culturale gettando le fondamenta iconoclastiche per una proficua successione e conservazione di remoti equilibri sociali.
Il Kilim racconta nello stesso tempo i desideri e le aspirazioni della tessitrice ed anche il loro modo di intendere ed affrontare il destino; quando una donna realizza un motivo di scorpione intende con ciò allontanare l’animale stesso, e la minaccia implicita, non solo dal suo focolare ma anche dal suo villaggio e dal suo paese; la giovane donna che tesseva disegni di orecchini sui suoi Kilim indicava ai genitori il desiderio di sposarsi. In particolare la donna Turca dell’Anatolia, utilizzando immagini e disegni simbolici di tradizione secolare ha intessuto il suo mondo ed i suoi segreti sui Kilim e sui tappeti, mantenendo nascosti i significati sentimentali dei motivi riprodotti persino ai loro mariti esclusi per tradizione a tutti i riti riguardanti l’adolescenza e il parto. Il Kilim era come un diario segreto e come tale spesso non si mostrava agli estranei, motivo per cui alcune tribù nomadi non vendono e non mostrano i loro Kilim agli sconosciuti e non raccontano neanche i significati dei motivi. Tali evincimenti si palesano in particolar modo considerando una leggenda molto conosciuta presso le tribù nomadi: “Un giorno il capo di una tribù nomade trovò un Kilim abbandonato all’ingresso della sua tenda. Lo prese e lo guardò attentamente e poi disse ad uno dei suoi uomini: “Trovami subito il padre della ragazza che ha tessuto questo Kilim e portamelo nella mia tenda”. Il padre fu trovato e portato nella tenda dell’ Aga che disse:” Da quel che ho capito credo che tu voglia maritare tua figlia con una persona che essa non vuole perché il suo cuore batte per un altro”. Il padre stupito rispose “Si signore, io non sono che un povero nomade e un uomo ricco ha chiesto la mano di mia figlia. Per il suo bene non ho potuto dire di no e a lui l’ho promessa. Ma mia figlia è innamorata di un giovane più povero di me. Ma!? Signore come fate voi a conoscere tutto ciò?” Il Signore mostrò il Kilim e chiese:” E’ stata tua figlia a tesserlo?” “Si Signore, riconosco il lavoro”. “E’ così, ho appreso tutto ciò attraverso il linguaggio di questo Kilim. Ti donerò dei cavalli e dei cammelli e tu potrai cominciare i preparativi del matrimonio con questo giovane. E di anche a tua figlia che lei ha ben tessuto il Kilim, ma che dovrà mettere meno verde nel rosso la prossima volta, mi stavo quasi sbagliando”.
Umberto Galimberti nella rubrica epistolare di “D, La Repubblica delle Donne” in un articolo denominato “La trama delle donne” parla dei kilim quali “misteriosa orchestrazione di messaggi in codice, di alfabeti dimenticati, di simboli trascurati eppure fondanti quella cultura universale, da cui l'Occidente si è separato per affermare il primato della storia sulla natura, anzi della sua storia su quella primordiale cultura che concepisce la vita come unione degli opposti: la trama e l'ordito, il maschio e la femmina, il cielo e la terra, la vita e la morte. Per avere smarrito questa simbolica duale, di cui la donna è gelosa custode, noi occidentali trattiamo i kilim, le cui figure raccontano una storia di novemila anni trasmessa da madre a figlia, come semplici tappeti da calpestare. E in essi più non avvertiamo quella presenza amica che proteggeva dal vento e dalla sabbia, serviva da mensa, da letto, fungeva da spazio sociale, per discutere e chiacchierare, da culla per bambini, da paramento funebre, da luogo di preghiera, da serbatoio di segreti dove intessuti erano i sogni delle donne che la storia degli uomini ha solo trascurato e calpestato. Eppure lì, nel kilim, c'è la trama profonda del senso della storia che nascite e morti cadenzano, come vuole il ritmo della natura, che non si è mai fatta incantare dal racconto della storia nel suo incessante proferir parole di riscatto, progresso, redenzione.”
Dea madre di Çatalhüyük – KONYA. La Grande Madre è una divinità femminile primordiale, presente in quasi tutte le mitologie note, in cui si manifestano la terra, la generatività, il femminile come mediatore tra l'umano e il divino. In particolare nell’area anatolica prese il nome di Cibele (greco: Κυβέλη - Kubelē; latino: Cibelis) venerata appunto come Grande Madre, dea della natura, degli animali (potnia theron) e dei luoghi selvatici.Nell’antica Grecia, all’inizio dei tempi, in molte zone dell’Egeo, era la donna a capo della famiglia. Nella stessa mitologia greca troviamo traccia di tali usanze. Le origini del matriarcato vanno ricercate nell’antica isola di Creta e in Licia. Le amazzoni erano popolazioni composte quasi esclusivamente da sole donne organizzate senza la presenza di uomini (o comunque, la loro presenza non era rilevante, in alcun senso). Seguivano le antiche leggi telluriche del matriarcato e vedevano la convivenza tra sole donne come la più perfetta. Tale particolarità aveva avuto origine all’interno delle società guerriere, quando l’uomo era costretto a stare molto tempo lontano da casa per combattere e, di conseguenza, era la donna che doveva stare a casa e fare da capofamiglia; doveva badare al fuoco domestico, ai figli, ai campi e partecipare alle assemblee cittadine. L’uomo tornava a casa solo di tanto in tanto, in quanto era impegnato, per la maggior parte del tempo, in battaglia. In questo tipo di società nacque la ginecocrazia e la vita amazzonica, nonché l’eterismo, ovvero la pratica sessuale indifferenziata, vista solo come un sacrificio al quale era portata la donna, con l’unico scopo di dare un futuro al proprio popolo (come valeva per l’ape regina). Giorgio Pastore, Dèi del Cielo, dèi della Terra, Eremon Editore
Peraltro la maggior parte degli studiosi individua nei disegni dei kilim anatolici i simboli stilizzati dell’antica Dea Madre: di generazione in generazione le donne si sarebbero tramandate i motivi ricorrenti della loro zona. Nel 1958 l’archeologo inglese James Mellaart scoprì nella penisola anatolica a 50 km a sud-est di Konya un sito destinato a diventare celebre: Çatalhüyük. A Çatalhüyük, dove 9000 anni fa nacque la prima comunità umana di cui si abbia notizia, sembra che la donna avesse un ruolo dominante, testimoniato anche dal culto della Dea Madre, la cui figura nei manufatti artistici è spesso abbinata a simboli di potere, come leoni, avvoltoi, serpenti. Significativa a proposito la relazione che è stata individuata tra i simboli che compaiono sugli odierni kilim e gli antichi segni, legati al culto della Dea-Madre, rappresentati negli affreschi e su vari oggetti di Çatalhüyük. Secondo questa affascinante teoria quindi, le donne anatoliche avrebbero tessuto per millenni questi disegni, tramandandoli fino a noi. Testimonianza che la donna nella penisola Anatolica anticamente abbia ricoperto un ruolo di sicuro rilievo è anche attestato dal mito delle Amazzoni (in greco antico Αμαζόνες) popolo favoloso di donne guerriere della mitologia greca e da ultimo il fatto che precocemente nel 1934 la Turchia abbia riconosciuto alle donne il diritto di votare (ben prima della ‘democratica’ Svizzera che lo concesse solamente nel 1971 e dell’Italia che quasi contemporaneamente emanava invece le leggi razziali (Fonte: World Chronology of the Recognition of Women's Rights to Vote and to Stand for Election: http://www.ipu.org/wmn-e/suffrage.htm); nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco.
Poster di una suffragette inglese del 1905
La Battaglia delle Amazzoni (o Amazzonomachia) è un dipinto ad olio su tavola di cm 121 x 165,5 realizzato intorno al 1615 dal pittore fiammingo Pieter Paul Rubens. Attualmente è conservato presso la Alte Pinakothek di Monaco di Baviera.
Questo posto è dedicato alle donne, visto nel paese in cui vivo (fonte http://www.weforum.org/gendergap) se si considera la partecipazione e opportunità economica delle donne (cioè un'analisi dei salari, dei livelli di partecipazione al mondo del lavoro e del grado di accesso alle posizioni più qualificate; l'accesso all'educazione, sia quella di base che quella più elevata; l'influenza politica, cioè il grado di partecipazione alle strutture decisionali) l'Italia ha un risultato disastroso: numero 77 su 115, ultima dell'Unione europea se non si considera Cipro, e superata da decine di Paesi in via di sviluppo (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/11_Novembre/21/donne.shtml );
in particolare dedico idealmente questo articolo a due donne la cui storia in questi giorni mi ha impressionato: Armida Miserere che fu una delle prime donne direttrici di carcere, servitrice dello stato che per lo Stato aveva svolto i compiti più duri, sempre alla guida di istituti di pena, si uccise con un colpo di pistola alla testa nella sua abitazione annessa al carcere di Sulmona. Accanto a lei solo il suo pastore tedesco e sul letto la foto del suo compagno Umberto Mormile, educatore carcerario, ucciso in un agguato di camorra nel 1990 a Milano. Questo lutto l'aveva segnata per sempre, anche perché associato alla rabbia e all'angoscia di non aver potuto per tanti anni avere giustizia. (Fonte: http://archiviostorico.corriere.it/2003/aprile/20/uccide_direttrice_del_supercarcere_co_0_030420147.shtml )Nell'ultimo biglietto scrisse:
"Vivo un dramma interiore... Non mi bastano più la considerazione a livello sociale e istituzionale, gli apprezzamenti pubblici... Mi uccido per colpa di quelli che mi hanno rovinato la vita"

Armida Miserere.

L'altra donna a cui dedico questo post è Rachel Corrie (10 aprile 1979 – Rafah, 16 marzo 2003) è stata una attivista statunitense pacifista. Era un membro dell'International Solidarity Movement (ISM) e, come tale, aveva deciso di andare a Rafah, nella striscia di Gaza, durante l'Intifada di Al Aqsa. Fu schiacciata da un bulldozer dell'esercito israeliano che tentava di distruggere alcune case palestinesi: una morte assurda.

Rachel Corrie. Una delle sue ultime lettere strazianti alla famiglia è contenuta al seguente link http://www.lecosechenonricordi.it/rachellettera.htm In essa ad un certo punto dice "Oggi ho provato a imparare a dire Bush è un burattino" ed ancora "Sono terrorizzata per la gente di qui. Ieri ho visto un padre tenere per mano i suoi figlioletti, sotto il tiro di carri armati, torrette, bulldozer e jeep."

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